La condizione di oggettività e la decodificazione (p18)

La massima condizione che garantisce l’oggettività della conoscenza è data dal concetto di esistenza. Questa è la condizione di esistenza di un ente, ed è esterna all’ente (perché, se vi fosse interna, l’ente sarebbe esterno alla propria esistenza, e quindi confinerebbe con nulla o con l’esistenza: nel primo caso, esso cessa di esistere; nel secondo caso, appunto l’esistenza è esterno da esso (ma non collegato con esso), e quindi l’ente cessa di esistere. L’esistenza dell’ente è una doppia colonna, che lo sostiene (lo fa esistere) dall’interno, ma lo fa esistere anche dall’esterno. Esiste solo ciò che è ipostaticamente connesso (e poiché il Creato non attualmente connesso con la fonte – condizione del terzo sistema -, ma è sostenuto dalla volontà di Dio, si comprende la configurazione instabile di esso, che, percepita a livello inconscio, produce l’angoscia e l’aggressività, come una delle sue condizioni). L’uomo che è consapevole di esistere (secondo Cartesio), conosce la propria esistenza, ma questa è a lui esterno, e quindi l’uomo la conosce in modo oggettivo. Inoltre, l’esistenza non appare, se non nel linguaggio (“esistenza”), e quindi il linguaggio ha un potere conoscitivo di tipo metafisico primario, perché è il solo strumento che consente la conoscenza empirica dell’esistenza, che è il noumeno, cioè il principio (posta la relazione astratta di esistenza del Padre, l’esistenza del Figlio è la sua ipostatizzazione: l’apparire del Figlio rivela/dimostra l’esistenza del Padre: il Padre, vedendo il Figlio, sa di esistere). Come è possibile tale conoscenza oggettiva dell’esistenza esterna al soggetto, sua condizione esistenziale ? (Kant nega che l’esistenza sia predicato, ma l’episteme pone l’esistenza contemporaneamente come soggetto, predicato, aggettivo e attributo di se stessa). Come si è detto, l’esistenza determina il soggetto e i suoi schemi, e apparendo come sostanza (la forma è la struttura – logico-grammaticale - dell’esistenza) alla percezione, stimola questa (lo schema della sostanza, anch’esso forma, cioè idea della mente e schema dell’idea medesima) e così fa attivare ciò che più sopra si è detta essere l’esistenza (colonna) interiore. Secondo il nichilismo, quando un uomo cessa di vedere un ente 8un sasso), quell’ente cessa di esistere. In realtà, cessa la costruzione soggettiva di quell’ente (ovvero la sua rappresentazione soggettiva): oggettivamente, non esistono la sostanza e la forma di quell’ente, ma esistono la sua esistenza, colta come sensazione schematica interiore dell’alterità della stessa rappresentazione interiore al soggetto (possibile per la struttura trinitaria, in cui la panteizzazione è interiore, ma riguarda una parte sé separata da se stessi, anche per lo s-doppiamento). Se la rappresentazione di una galassia mi appartenesse completamente, io sposterei la galassia, ma di fatto la galassia non si sposta: dunque la sua rappresentazione è solo in parte soggettiva, e la sua esistenza (testimoniata dall’auto-alterità di tale rappresentazione: percepisco la sensività stessa come un oggetto a me estraneo) è senz’altro oggettiva (perché la galassia non va dove vorrei che andasse la sua/mia rappresentazione). A questo punto si può introdurre il concetto di decodificazione: la forma è linguaggio, e il linguaggio riproduce un’altra realtà e ad essa rimanda (questa realtà si è riprodotta nel linguaggio). La decodizione va oltre il linguaggio, nel senso che quella forma è la struttura dell’essere, e attraverso il linguaggio, che è la stessa forma della realtà, l’uomo può conoscere la grammatica logica della realtà, cioè i principii del suo dispiegamento logico. Il cosmo è esteso, il corpo umano è un punto concentrato. Tali sono anche le galassie, falsamente “estese”, che appaiono tali solo per dare “spazio” a tutta la propria struttura logica-ipostatica (stelle e pianeti), linguaggio e grammatica dell’esistenza. 
Conclusivamente, vedendo il sasso io so che il sasso esiste, la sua forma (struttura atomica) rimanda alla struttura esistenziale. Dio può coglierla. La forma e la sostanza del sasso sono rappresentazioni soggettive, che scompaiono cessato di vedere il sasso. L’esistenza del sasso, testimoniata dalla sua rappresentazione, e dall’auto-alterità sensitiva di questa rispetto al soggetto (che “subisce” il sasso, ovvero la galassia, la quale peraltro “rimane lì”, pur giratosi il soggetto), è colta in modo totalmente oggettivo (il sasso "vero" esiste, ma non sta davanti al soggetto, può stare anche in un luogo spazio-temporalmente "inconcepibile" all'uomo, ma in ogni caso deve stare e non può non stare nel segmento ipostatico dell'esistenza, colto oggettivamente da Dio).